Le conseguenze della destabilizzazione del Mar Rosso e dell’Indo-Pacifico

Nicola Silenti

Chi controlla i mari controlla il mondo. È questo uno dei grandi assiomi della storia dell’uomo, conosciuto a menadito in tutte le epoche a capi di stato, generali e imperatori. Una verità che determina la sorte degli imperi, una sorte appesa da sempre assai più che alla terra al mare, il cui dominio regola i rapporti di forza tra le nazioni e ne determina le ascese o i declini.

Nei primi anni sessanta del secolo scorso le super petroliere della Getty Oil Company (la celeberrima compagnia petrolifera USA fondata da Jean Paul Getty, che visse il suo massimo successo negli anni sessanta), quelle del tipo “Tidewater” di procidana memoria, erano costrette a fare rotta per il Capo di Buona Speranza per trasportare il petrolio dal Golfo Persico-Mina Saud a Delaware City sulla East Coast degli Stati Uniti non potendo, per motivi di pescaggio, passare per il Canale di Suez. Una soluzione obbligata che le costringeva ad allungare i tempi di navigazione di almeno dieci giorni con il conseguente aumento di consumo del carburante. Più tardi, con l’allargamento e i lavori di dragaggio del Canale di Suez, anche le super petroliere furono messe nelle condizioni di sfruttare appieno la rotta del Mar Rosso, una tra le più importanti rotte mondiali per le spedizioni di petrolio.

Nel mondo contemporaneo la destabilizzazione del Mar Rosso, in gran parte riconducibile ai venti di guerra sulla striscia di Gaza e alla crescente minaccia all’intera regione marittima costituita dagli attacchi delle milizie sciite degli Houthi, sembra aver riportato indietro le lancette del tempo. Per garantire la sicurezza degli equipaggi e delle stesse navi le grandi compagnie di spedizioni marittime hanno preso la decisione di non seguire la rotta classica del Mar Rosso e di indirizzare le navi verso il Capo di Buona Speranza, all’estremo meridionale dell’Africa, proprio come avveniva nei primi anni sessanta. La situazione che si è venuta a determinare non mancherà di colpire l’intera dinamica delle catene di approvvigionamento con un sensibile aggravio dei costi, tutti a carico dei consumatori.

Il punto cruciale della destabilizzazione del Mar Rosso è lo stretto di Bab el-Mandeb, in più occasioni richiamato su queste pagine, anche per ricordi nostalgici. Lo stretto di Bab el – Mandeb oggi diventa cartina di tornasole della fragilità delle nostre economie e dei nostri circuiti di approvigionamento, esposti a una pioggia di rischi non solo strutturali (basti pensare al blocco del Canale di Suez) ma anche per la pioggia di rovesci geopolitici scandita dai disordini politici e dalle varie guerre in corso su questo delicatissimo scacchiere. Purtroppo, anche se in maniera ancora differente, la destabilizzazione della sicurezza marittima nella regione del Mar Rosso si estende anche alla zona dell’Indo-Pacifico, intaccando le relazioni tra Cina e Stati Uniti (in una parola: Taiwan) proprio nel cruciale spazio oceanico che comprende sia l’oceano Indiano che il Pacifico. Un’area, questa, ormai diventata un luogo del mondo estremamente interessante, vero nucleo nevralgico di strategie geopolitiche, il cui esotico neologismo testimonia la convergenza delle priorità strategiche degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi principali alleati dell’area (su tutti Australia, Giappone e India) uniti dal comune interesse di contenere l’espansionismo cinese nella regione.

Da queste rapide e sintetiche considerazioni è possibile ricavare in tutta evidenza come la libertà di navigazione non sia più, come negli ultimi decenni, un fatto scontato e che sia quanto mai indispensabile «preservarla e difenderla con le armi» come ha efficacemente argomentato Stefano Magni su Atlantico Quotidiano del 29 dicembre 2023,sottolineando altresì che «lo stesso problema è costituito dalle minacce iraniane di bloccare il Golfo Persico e dalla guerra del grano combattuta dalla Russia nel Mar Nero».

È utile rammentare come gli spazi marittimi coprano in totale il 71 per cento del pianeta. Spazi marittimi che distinguono le zone in esame in oceani e mari, i quali a loro volta comprendono aree e spazi specifici come i canali e gli stretti, i famosi choke points (letteralmente colli di bottiglia), punti nodali a elevatissimo rischio che nell’attuale contesto storico internazionale sono a tutti gli effetti i capisaldi della geopolitica del mare e i nodi cruciali su cui si gioca il potere marittimo delle grandi potenze. Perché chi domina i mari domina il mondo.

  

  
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