Prima i lavoratori: il sindacato secondo Giulietti e Di Vittorio

A 70 anni dalla scomparsa del sindacalista riminese la CGIL ha inserito la biografia dello storico leader dei marittimi nelle celebrazioni per i 120 anni della Camera del Lavoro. Il 20 giugno, presso la corte della Biblioteca Gambalunga, una tavola rotonda ha affrontato la complessa figura di Giuseppe Giulietti.

Chiamamicitta.it ha chiesto a Gianluca Calbucci e ad Andrea Montemaggi, i due relatori dell’incontro del 20 giugno, una sintesi dei loro interventi. Abbiamo già pubblicato l’intervento di Calbucci (“Capitan Giulietti, il romagnolo più famoso del primo Novecento dopo Mussolini”) ed ora pubblichiamo l’intervento di Andrea Montemaggi sul complicato rapporto di Capitan Giulietti con la CGIL e il suo leader Giuseppe Di Vittorio nel dopoguerra italiano.

La figura di Giuseppe Giulietti – meglio noto come Capitan Giulietti – potente leader del sindacato dei marittimi dal 1909 al 1953 ad eccezione della parentesi fascista, è stata riscoperta, studiata e poi dimenticata più volte nell’arco dei settanta anni che sono trascorsi dalla sua morte.

Il suo ruolo a volte determinante in cruciali momenti della storia italiana – si pensi ad esempio all’appoggio fornito, anche finanziariamente, al giovane Mussolini in procinto di lasciare il partito socialista per abbracciare la causa dell’interventismo oppure al fondamentale apporto alla causa di D’Annunzio durante l’impresa di Fiume – è stato posto in luce da numerosi storici.

Vi sono tuttavia numerosi aspetti della sua complessa personalità che non sono stati sufficientemente sondati, come il motivo del suo magnetismo e del suo carisma nelle masse dei marittimi, oppure il fascino della sua retorica o anche la sua capacità di volgere l’eclettismo in tema di teorie sociali alla comprensione e all’adesione di marinai spesso analfabeti che avevano cominciato a imbarcarsi a 8 anni.

Poco è stato scritto riguardo al periodo del secondo dopoguerra quando, con rara astuzia e capacità, e nonostante un comportamento non sempre lineare durante il periodo fascista, riuscì a superare formidabili ostacoli posti dalle forze antifasciste che avrebbero voluto emarginarlo.

A 65 anni infatti un Giulietti mai domo combattè vittoriosamente la battaglia per riconquistare la leadership della F.I.L.M., Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare, scontrandosi dapprima con la C.G.I.L. ma poi allacciando una rapporto molto particolare con Giuseppe Di Vittorio.

La visione dei rapporti tra Giulietti e Di Vittorio non sarebbe completa e non potrebbe spiegare globalmente l’evoluzione se si prescindesse da un’analisi, seppur sommaria, di alcuni punti di contatto, o meglio di affinità, che i due sindacalisti presentavano.

Per comprendere le ragioni del favore di Giulietti riscosso nella maggior parte dei marittimi durante tutta la sua vita non basta citare la sua abilità manovriera nelle assemblee: egli era superiore ai suoi avversari – ad eccezione di Di Vittorio – nel carisma e nella personalità.

D’altra parte le conquiste del passato che avevano trasformato la vita della gente di mare non potevano essere dimenticate. I marittimi vedevano in lui ancora colui che difendeva con coraggio e con astuzia le loro battaglie, un “golpe et lione” di rara efficacia machiavellica nell’affrontare il nemico armatore che, non si dimentichi, era una controparte padronale di immensa potenza con alle spalle tutti i maggiori gruppi finanziari del Paese.

La sua formazione familiare mazziniana lo portava sempre a coniugare il pensiero all’azione, anche se quest’ultima generalmente poi era quella che più appariva, Giulietti non dimenticava mai di proporre idee, molto semplificate ma adatte a masse tendenzialmente analfabete, per motivare le battaglie che intraprendeva. Scriveva senza pausa e altrettanto incessantemente indiceva assemblee e a frequentava i vari porti per stare a contatto con i marittimi.

Giulietti aveva iniziato al sua carriera di contestatore del sistema già a 23 anni e trentenne si era posto alla ribalta del mondo del lavoro; nell’arco di altri tre o quattro anni era diventato un personaggio che si distingueva dagli altri organizzatori dell’epoca e compariva su tutti i giornali.

Ma prima di allora, pur svolgendo la sua carriera di ufficiale a bordo delle navi, si era profondamente interessato dei problemi dei marittimi, entrando a contatto e collaborando con Giovanni Zampiga, segretario della Federazione dei Lavoratori del Mare, che era di idee molto vicine al sindacalismo rivoluzionario ed a suoi eminenti esponenti come Arturo Labriola e Alceste De Ambris.

Quando a metà della prima decade del Novecento si consumò la frattura nel sindacalismo, dovuto anche alla mozione del congresso di Stoccarda che prevedeva il sindacato in stretta interdipendenza con il partito, Giulietti scelse ufficialmente di continuare la militanza nel socialismo, ma alcune teorie, soprattutto una netta distinzione tra direzione dell’organizzazione e dirigenza del partito, non furono mai abbandonate ed anzi costituirono sempre capisaldi di Giulietti per rivendicare una piena libertà di azione.

E’ noto che la formazione di Di Vittorio (di 13 anni più giovane) anche se da semplice organizzato fu segnata dall’esperienza del sindacalismo rivoluzionario e aderì al partito comunista solo nel 1924. Secondo Pietro Neglie, «il passato sindacalista rivoluzionario incideva sull’essere comunista del grande sindacalista pugliese, per il quale il lavoratore viene prima di tutto». Di Vittorio ebbe sempre l’idea, statuita già nel patto di Roma e poi riaffermata con forza nell’ultima fase della sua vita, che il sindacato dovesse essere apartitico e che non dovesse finire ad essere “cinghia di trasmissione” del partito e lottò spesso per questo obiettivo.

Vi erano stati poi momenti di affinità di idee tra i due organizzatori, come l’interventismo nella Grande Guerra e il giudizio sull’impresa di Fiume dannunziana, oltre che ovviamente per entrambi una generale aspirazione per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.

Un’altra caratteristica che avvicinava Di Vittorio a Giulietti – peraltro distanti tra loro per mille altri aspetti – era la loro semplicità umana e la capacità di toccare la sensibilità della gente comune con parole chiare, evocative e comprensibili anche dei più umili, ma dense di speranza per l’avvenire. L’oratoria di Giulietti era forse più prolissa e retorica ma comunque misurata all’uditorio: lo riconobbero Armando Borghi e Giovanni Ansaldo pur militando in campi non attigui. Addirittura egli inventò un modo di interrogare i marinai dall’alto delle tolde delle navi che ebbe molta fortuna e che qualcuno ritenne essere l’origine dell’oratoria sia di D’Annunzio sia di Mussolini.

Di Vittorio era celebre per saper esaltare le masse per raffigurare loro alte mete alle quali esse potevano giungere. Luciano Lama dirà infatti: «Era un grande oratore di massa. Parlava ogni giorno, e, certamente, coloro che hanno ascoltato direttamente la voce di Di Vittorio sono più numerosi di quanti hanno ascoltato altri oratori, almeno dal ’45 al ’57, quando Di Vittorio è morto. Dovunque si presentasse appariva come difensore degli oppressi, il liberatore, l’uomo della povera gente, il fratello con i suoi fratelli: questo era il suo linguaggio. Ma questo non era solo il suo linguaggio, era la sua verità: Di Vittorio era così e così concepiva i suoi rapporti con la gente, coi lavoratori. Questo suo comportamento è stato anche talvolta criticato, ma era fatto così».

Appare quindi utile rivedere questo periodo della vita di Giulietti alla luce di quanto emerge dagli archivi della C.G.I.L., per riesaminare la condotta del riminese ma anche di Di Vittorio, riesame che può portare anche a riformulare giudizi su questa fase della storia sociale del nostro Paese.

L’accesso a tale documentazione, pur con varie difficoltà dovute al fatto che si tratta di fondi da considerarsi privati e a norme piuttosto restrittive sulla duplicazione della corrispondenza che non rendono agevole il lavoro dello studioso, ha reso possibile gettare una nuova luce sui rapporti tra i due organizzatori, e inducono a riconsiderare quanto finora sostenuto, evidenziando anzi un rapporto privilegiato che portò a vantaggi reciproci.

Infatti da una parte Giulietti, con concessioni tutto sommato minori, potè continuare a restare ben saldo alla guida del sindacato dei marittimi, dall’altra Di Vittorio, si guadagnò l’adesione di una organizzazione numerosa e determinante ad una C.G.I.L. scossa dalle scissioni e per di più l’appoggio di un deputato che era stato eletto, anche se come indipendente, nelle liste del Partito Repubblicano Italiano: tale formazione era all’epoca alleata della Democrazia Cristiana e in prima fila a difendere il piano Marshall e l’adesione dell’Italia alla NATO, temi che, come è ben noto, costituivano invece i maggiori campi di battaglia politica del Partito Comunista.

Il punto cruciale dell’intesa tra i due sindacalisti, dopo precedenti avvicinamenti e allontanamenti, fu l’accordo che avvenne, dopo diverse trattative, alla fine del 1948 e all’inizio del 1949: in base ad esso Giulietti entrò a far parte del Comitato Centrale della C.G.I.L. ma ciò comportò una pressoché definitiva affiliazione della F.I.L.M., che peraltro negli ultimi anni di gestione da parte del sindacalista riminese stava mostrando segni di crisi.

In sostanza Di Vittorio, con lungimiranza e senso strategico, anche a costo a volte di contrastare diverse opinioni dell’apparato, assicurava alla C.G.I.L. l’adesione di gran parte dei marittimi che sfuggivano così alle sirene dei sindacati concorrenti, lasciando temporaneamente la guida dell’organizzazione ad un Giulietti indebolito sindacalmente, in qualche modo controllato e, fra l’altro, debilitato dalla malattia che lo avrebbe condotto nel giro di poco tempo alla morte.

Che il rapporto tra i due esponenti sindacali avesse connotati anche di umana vicinanza e affinità può essere dedotto anche dal toccante discorso pronunciato da Di Vittorio alla scomparsa di Giulietti durante i grandiosi funerali celebrati, nonché dal comportamento tenuto successivamente: caso più unico che raro, il sindacalista pugliese acconsentì che la segreteria della F.I.L.M. si trasmettesse al figlio venticinquenne Nino, quale passaggio quasi ereditario del tutto sconosciuto nel campo sindacale ma anche nella sinistra in generale.

  

  
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