Nicola Silenti
Dopo un anno vissuto a bordo della Tidewater, lo sbarco a Palermo il 21 giugno 1959 fu un momento carico di emozione, preludio al vero ritorno: quello verso la mia isola, Procida. Lasciare la nave significava ritrovare il calore della famiglia, i volti cari che mi aspettavano con trepidazione. Il viaggio verso casa fu breve ma colmo d’attese, e quando finalmente rimisi piede sull’isola, tutto mi parve immerso in una luce diversa, familiare e struggente. Le giornate scorrevano lente e luminose, tra bagni al mare, lunghe passeggiate e serate d’estate trascorse a raccontare agli amici le avventure vissute.
Era un tempo di ristoro, di famiglia, amici e normalità. Ma il richiamo del mare non tardava a farsi sentire. La quiete a terra aveva un gusto dolce, ma effimero. In fondo, il cuore era rimasto sulla nave, nei turni di guardia, nei calcoli astronomici, nel rumore costante dei motori e nel silenzio maestoso dell’oceano.
Così, dopo poco più di due mesi, ero pronto a ripartire. Questa volta la destinazione era la Massachusetts Getty, superpetroliera di bandiera liberiana appartenente alla Transoceanic Shipping Co., ancorata in rada a Mina Saud, nel Golfo Persico, per le consuete operazioni di carico. Anche questa unità faceva parte della grande flotta Getty, la potente armata navale voluta da Jean Paul Getty, imprenditore visionario che aveva rivoluzionato il trasporto del petrolio.
All’alba della sua ascesa nel mondo dell’oro nero, Getty nutriva un sogno ambizioso: trasportare direttamente il greggio del Medio Oriente verso i mercati occidentali, senza affidarsi a intermediari. Ma a quel sogno mancava un elemento essenziale: una flotta propria. In quegli anni cruciali, il trasporto marittimo del petrolio era saldamente nelle mani di un solo uomo: Aristotele Onassis, l’armatore greco che aveva trasformato le petroliere in uno strumento di potere e influenza globale.
Getty, sebbene riluttante, fu inizialmente costretto ad appoggiarsi proprio alla flotta di Onassis per onorare i propri contratti. Le sue navi erano moderne, capienti e affidabili. Ma per un uomo come lui dipendere da altri era inaccettabile. Così nacque la flotta della “Getty Oil Tanker Fleet” indipendente e strategica, di cui anche la Massachusetts Getty era orgogliosa protagonista,con un armatore che non voleva semplicemente trasportare petrolio. Voleva farlo alle sue condizioni con una flotta che navigava sotto bandiera di comodo, sfruttando vantaggi fiscali e normativi, ma gestita da equipaggi esperti, capaci di affrontare rotte lunghe e insidiose. Le navi erano impiegate su tratte strategiche: dal Golfo Persico agli Stati Uniti, all’Europa, passando per Suez o doppiando il Capo di Buona Speranza.
Questo controllo diretto sulla logistica rese Jean Paul Getty uno dei pochi imprenditori petroliferi realmente indipendenti dalle grandi compagnie di navigazione. Un visionario, forse, ma anche un calcolatore che comprese prima di altri che il vero potere del petrolio non era solo nel pozzo, ma anche nella nave che lo portava a destinazione.
Ho vissuto parte di quel periodo da protagonista, da uomo di mare, a bordo di quelle stesse navi che portavano il nome dell’impero Getty. Prima sulla Tidewater, poi sulla Massachusetts Getty, ho solcato le rotte del petrolio che univano il Golfo Persico con l’Europa e le Americhe. Navi grandi, solidissime, organizzate con una precisione quasi militare con un senso di disciplina e rigore che rifletteva la mentalità di chi quelle navi le possedeva. Eppure, dentro quella routine disciplinata, c’era l’avventura pura del mare. Eravamo marinai, certo, ma anche testimoni diretti di un cambiamento epocale, della trasformazione del trasporto marittimo e dell’economia mondiale. A bordo si respirava il senso dell’impresa americana, quello spirito pratico e diretto che non ammette inutili parole. Lavoravamo in sintonia, senza bisogno di troppe spiegazioni. Bastava uno sguardo. Sapevamo tutti cosa fare. E lo facevamo bene. A distanza di tanti anni, quelle due navi mi tornano in mente come isole galleggianti della memoria. Non erano solo mezzi di trasporto ma strumenti di un disegno economico globale e noi marinai italiani,compreso molti procidani, eravamo parte di quel disegno. Portavamo il petrolio, sì. Ma portavamo anche la fatica, il coraggio e il sapere del nostro mare.
Il viaggio per raggiungere la nave fu esso stesso un’avventura. Partenza da Procida, poi Genova per le pratiche d’imbarco. Il 30 agosto 1959 partii in aereo per Beirut. Non ricordo con certezza se il volo partisse da Milano o da Roma: il visto d’uscita sul libretto di navigazione, ormai sbiadito dal tempo, non mi aiuta a dirlo. Ma nitido è il ricordo dell’attesa, della valigia leggera e dello sguardo rivolto a est, verso il Golfo Persico, dove una nuova avventura mi attendeva a bordo della Massachusetts Getty.
Da Beirut raggiunsi Kuwait City. Il giorno seguente, dopo una notte calda e insonne in un modesto albergo cittadino, affrontai il tratto finale del viaggio: un lungo tragitto in automezzo attraverso il deserto. Il caldo era soffocante. Il veicolo, privo di aria condizionata, procedeva a finestrini chiusi per evitare l’ingresso della sabbia fine e rovente. L’aria diventava quasi irrespirabile, e ogni sosta sembrava un sollievo illusorio. Era un viaggio silenzioso, rotto solo dal rumore del motore e dal fruscio del vento tra le dune.
Giunto al terminal petrolifero di Mina Saud, salii a bordo di un rimorchiatore che mi condusse alla nave, ferma all’ancora, sagoma scura e imponente sullo sfondo del mare. Quella sagoma, in attesa silenziosa, era il segno che la mia vita da uomo di mare continuava. Era il 1 settembre 1959.
A bordo, fra i membri dell’equipaggio, incontrai con sorpresa alcuni paesani, volti noti che riportavano il profumo di casa anche nei mari lontani. C’era una solidarietà silenziosa in quegli sguardi, un’intesa che nasce solo tra chi condivide la stessa terra e la stessa sorte.
I viaggi erano sempre gli stessi, ma mai uguali. Da Mina Saud a Delaware City, e ritorno. Il passaggio a sud dell’Equatore segnava ogni volta un confine simbolico, come se si entrasse in un altro tempo, in un’altra dimensione. Le albe colorate tingevano l’oceano di sfumature irreali, e le notti infinite sembravano sospese tra sogno e realtà, immerse in un silenzio così profondo da assordare. In quelle notti oceaniche, era la Croce del Sud a dominare il cielo. Per chi naviga, non è solo una costellazione: è una compagna fedele, una guida silenziosa che orienta quando ogni riferimento scompare e il mare si confonde con il cielo. Una bussola celeste, immobile e rassicurante, che veglia sul navigante come un antico custode.
Ogni volta che la rivedevo brillare, là dove il buio è più fitto e il silenzio più assoluto, provavo una sensazione che sfiorava il sacro. Era come se, tra quelle quattro stelle, si nascondesse un segreto antico, un richiamo misterioso che parlava all’anima del marinaio. Sul ponte, solo tra le ombre e il respiro sommesso dell’oceano, la sua luce sembrava un faro d’eternità, una promessa di rotta sicura oltre le inquietudini e la solitudine del mare.
La raffineria di Delaware City ci accoglieva con le sue luci industriali, l’odore acre del greggio e il ritmo incessante dei camion, che andavano e venivano come in un rituale senza fine. Era un paesaggio brullo, metallico, che sembrava non dormire mai. Ma bastava allontanarsi di pochi chilometri, superare la soglia invisibile tra industria e quotidianità, per ritrovarsi nella quiete sorprendente della cittadina. Le villette ordinate si affacciavano su strade pulite, con giardini verdi e curati che sembravano disegnati con righello e passione. I grandi alberi, ombrosi e maestosi, sembravano abbracciare ogni casa, come a proteggerla dal rumore del mondo. Le famiglie si muovevano con calma, i bambini giocavano nei cortili, e nei piccoli negozi si respirava un senso di tranquillità operosa. Era un altro mondo, distante anni luce dal deserto e dai ponti di ferro bollenti delle petroliere. Ogni volta che riuscivo a mettere piede in quella quiete, qualcosa dentro di me si apriva. C’era un senso di appartenenza silenzioso, come se quelle strade, quei tetti spioventi e quelle panchine all’ombra fossero lì ad aspettarmi. Amavo quel mondo semplice e gentile, così diverso dai porti caotici dell’Est, e così familiare nella sua sobrietà. Senza saperlo, forse, già allora intuivo che l’America, mi avrebbe accolto per un lungo tratto di vita. E così fu: New York divenne, dopo l’esperienza con la Getty Oil Company, il mio “home port”, il porto da cui partivo e al quale facevo ritorno, con la certezza di trovare ogni volta un punto fermo, una città che imparai a sentire anche un po’ mia ma con nel cuore l’eco delle prime emozioni vissute in quella piccola, sorprendente Delaware City.

I viaggi di ritorno da Delaware City a Mina Saud si facevano sempre via Gibilterra segnando come al solito l’ora al traverso di Punta Europa. Un altro punto fermo nel nostro lungo navigare. Poi il Mediterraneo, il Canale di Suez — sempre emozionante, come un rituale solenne — e infine di nuovo Mina Saud. Durante le soste per il carico, l’unico passatempo era la pesca in un mare generoso. I pesci, cucinati a bordo, venivano offerti agli operatori arabi, che però sembravano gradire di più i polli della nostra cambusa. Era un modo per stabilire un contatto umano, anche laddove le lingue e le culture sembravano troppo distanti.
Il 23 giugno 1960 sbarcai a Mina Saud ed ebbe inizio il mio viaggio di ritorno verso casa, un itinerario che mi avrebbe condotto dal cuore del Golfo Persico fino alla mia isola, attraversando deserti, aeroporti e mari. Da Kuwait City presi il primo volo. L’aeroporto, allora ancora lontano dai fasti del mondo moderno, era una struttura sobria, funzionale, più simile a una stazione polverosa che a uno snodo internazionale. L’aria era satura di caldo e sabbia, i ventilatori giravano lenti sul soffitto e le voci si perdevano tra gli annunci gracchianti in arabo e inglese. Il personale, vestito in modo essenziale, si muoveva con calma. Tutto era permeato da una lentezza antica, quasi rituale, come se il tempo scorresse a un ritmo diverso sotto quel sole rovente.
Da lì, il volo mi portò a Beirut. Anche l’aeroporto della capitale libanese, in quegli anni, aveva il volto di una città elegante e cosmopolita, non ancora toccata dalle ferite del futuro. Beirut era il ponte tra l’Oriente e l’Occidente, un crocevia pieno di promesse e contrasti. Ricordo il traffico sulla pista, gli aerei parcheggiati vicino a camioncini che rifornivano i serbatoi, le hostess sorridenti con l’uniforme stirata e lo sguardo assorto. Nell’attesa della coincidenza, mi persi ad osservare la varia umanità di quel terminal: uomini d’affari, famiglie in viaggio, soldati in transito, marinai come me. Ognuno diretto verso un angolo diverso del mondo, ma accomunati dalla sospensione di quel luogo di passaggio, dove non si è ancora partiti né davvero arrivati.
Poi Roma, con l’aeroporto che già allora mostrava una veste più moderna, viva di italiani, turisti e voci familiari. E da lì il treno per Napoli, finestrini abbassati e sedili consumati, tra paesaggi sempre più noti e profumi che cominciavano a riportarmi a casa. L’ultimo tratto fu il traghetto per Procida. Vento salmastro sul viso, il profilo dell’isola che lentamente prendeva forma all’orizzonte, e infine lo sbarco. Ogni tappa era stata un passo verso le radici, un cammino interiore che cresceva a ogni chilometro, come un pellegrinaggio verso ciò che davvero conta.
Al momento dei saluti, poco prima dello sbarco a Mina Saud, il Comandante mi aveva comunicato una notizia inattesa: era stato già predisposto il mio rientro a bordo della Massachusetts Getty per il prossimo mese di novembre, stavolta con una nuova qualifica — 3° Ufficiale. Una sorpresa che accolsi con emozione profonda. Era il segno tangibile che qualcosa stava cambiando, che il mare, con la sua voce severa e generosa, non solo mi stava richiamando, ma cominciava anche a riconoscere il mio passo, la mia crescita, il mio impegno. La soddisfazione era grande, intima, silenziosa: sentivo che la mia rotta si stava tracciando, un miglio alla volta, verso un futuro ancora ignoto ma sempre più mio.