La geopolitica degli spazi marittimi per leggere e comprendere il mondo

Nicola Silenti

Chiunque abbia trascorso una piccola o grande parte della propria vita sul mare sa bene come ogni luogo veduto e visitato lasci dentro il proprio animo un ricordo nostalgico. Un ricordo che sussurra alla memoria gli echi distanti della vita di bordo, frammenti di gesta e vicende vissute lungo le tratte che conducono ai quattro angoli del globo. Rotte millenarie che sono esse stesse la turbolenta cronaca della storia umana, una storia scritta con la spuma e gli schizzi delle scie delle imbarcazioni e dei loro capitani coraggiosi, i grandi protagonisti dell’infinito via vai di uomini e merci dall’Europa verso Oriente e poi Occidente.

Una storia segnata da luoghi simbolo come le Colonne d’Ercole, bastioni del progresso ed effigie dell’ingegno umano come il Canale di Suez o di Panama. Oppure i passaggi di stretti come Bab el-Mandeb, Hormuz e Malacca, cartine di tornasole della fragilità delle nostre economie e dei nostri approvigionamenti, esposti da sempre a una pioggia di rischi strutturali (basti pensare al blocco del Canale di Suez) e di rovesci geopolitici dettati dall’enorme traffico di navi, dalla pirateria e dai disordini politici.

Una pioggia di rischi sconosciuti a chi, come chi scrive, attraversava questi stretti negli anni tra il 1957 e il ’71 le “High risk areas” (Zone ad alto rischio) marittime non erano state ancora create. Stretti, rotte e punti nodali a rischio elevatissimo eppure così a cuore per chi ha scelto, per caso o per passione, di vivere un’esistenza da marittimo. Luoghi che nell’attuale contesto storico internazionale sono a tutti gli effetti i capisaldi della geopolitica del mare; una parola la “geopolitica” rimasta sconosciuta all’universo marittimo almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso nonostante vi avesse fatto più volte ricorso fin dal lontano 1899 il geografo svedese Rudolf Kjellen, per alcuni il padre della materia.Altri invece attribuiscono la paternità di questa disciplina a Friedrich Ratzel, l’etnologo e geografo tedesco che nel 1904 (anno della sua morte) passava il testimone al geografo inglese Halford Mackinder: una staffetta che oggi si può riassumere nell’assioma che i fondatori della geopolitica occidentale possono essere a tutti gli effetti considerati tutti e tre insieme.

Giova altesì ricordare la breve a lungimirante parentesi della disciplina in Italia dal 1939 al 1942 con la rivista “Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale e coloniale” nata su iniziativa di Giuseppe Bottai.

Oggi la geopolitica è «una parola di moda» come scrive Lucio Caracciolo, il direttore della rivista italiana di geopolitica Limes da lui fondata nel 1993 e ormai affermatasi come voce più autorevole della materia, aggiungendo sul numero di febbraio del 2018 della rivista che «la geopolitica è l’analisi dei conflitti di potere in spazi e tempi determinati». Esaminando la questione a partire da questa definizione “elementare” (a detta dello stesso autore), è bene riflettere sul fatto puro e semplice che gli “spazi marittimi” coprono il 71 per cento del pianeta Terra e si distinguono in oceani e mari, che a loro volta comprendono aree e spazi specifici come i canali e gli stretti,i famosi “choke points” (colli di bottiglia) richiamati sopra tra i quali spicca lo stretto di Malacca, oggi il più congestionato.

“Geopoliticamente” parlando non sfugge al vecchio marittimo la decisione di consegnare il Mare nostrum alla teoria del “Mediterraneo allargato”, suggellata da un’altra definizione molto in voga anche sulle colonne di Limes, quella di Medioceano,cioè di un bacino da considerare come via acquatica di collegamento tra due diverse sezioni dell’Oceano mondo. Mare al quale lo storico contemporaneo Egidio Ivetic nel suo fortunato libro “Il Mediterraneo e l’Italia” per Rubbettino Editore assegna nomi diversi (Adriatico, Ionio,Tirreno,Ligure), ma un unico, medesimo cognome: Mediterraneo.

Nelle attuali connotazioni geografiche non può sfuggire poi il termine politico assegnato a uno spazio oceanico che comprende sia l’oceano Indiano che il Pacifico e cioè l’Indo-Pacifico, area del mondo estremamente interessante e nucleo nevralgico di strategie geopolitiche, il cui nome suscita confusione soprattutto quando ci si trova a definire lo spazio marittimo e soprattutto geografico che ricopre. Una definizione, Indo – Pacifico, comunque riconducibile a un altro termine sconosciuto ai tempi dello scrivente: il Q.U.A.D. (acronimo di Dialogo quadrilaterale di sicurezza), punto di convergenza delle priorità strategiche degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi principali alleati dell’area, Australia, Giappone e India, uniti dal comune interesse di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell’Indo-Pacifico.

E’ proprio vero che la geopolitica affonda le sue radici nell’attualità! Una considerazione forse scontata eppure istintiva per gli occhi di chi scrive, sorpreso a rileggere gli appunti delle tante traversate e dei tanti viaggi tra Golfo Persico e Giappone. I ricordi di un uomo di mare che, varcato lo stretto di Malacca, invece di passare per via diretta dall’Oceano indiano al Pacifico preferiva optare per il corridoio dell’Indo-Pacifico.Una scoperta interessante che arriva a decenni di distanza dai fatti, ma che sembra cozzare e non poco con ben altri cambiamenti, vere e proprie metamorfosi della storia che hanno sconvolto tanti dei luoghi visitati e vissuti,prima fra tutti la splendida Beirut di un tempo, quella conosciuta da tanti come la Parigi del Medio-Oriente. La splendida capitale di un mondo solo all’apparenza scomparso, e invece sospeso come qualsiasi altro ai colpi di testa del caso e ai capricci della storia. Una storia che sembra sempre piovere sulle nostre teste dall’alto, e che invece a scrivere siamo sempre noi uomini.

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