I porti d’Italia contro Bruxelles. Il ricorso contro i cappi fiscali imposti dalla UE

Nicola Silenti

Dopo l’ultima lettera della Commissione UE, dove risulta sempre più evidente che la deliberazione dell’Unione Europea vincolerebbe gli Stati membri al previo assenso della Commissione circa le politiche economico-industriali, si comprende come gli intenti di Bruxelles siano volti a complicare la vita agli operatori portuali del Sud Europa, come se studiasse ogni modo possibile per ritardare i lavori non appena si presentino piani di rilievo.

La decisione in sede UE è avvenuta in capo agli uffici dell’Antitrust guidati dalla danese M. Vestager. Il 4 dicembre da Bruxelles sono stati imposti due soli mesi al Governo per abolire l’esenzione fiscale per le Autorità portuali prevista dalle normative nazionali. Così queste saranno costrette a versare l’IRES. A un certo punto però la misura si è colmata e i porti del nostro Paese hanno intentato causa alla Commissione UE. Difatti, sedici Autorità di Sistema portuale, che avevano tempo sino al 5 aprile, hanno presentato contro l’UE il ricorso che l’ex ministro dei Trasporti P. De Micheli si era limitata a promettere, senza poi mantenere la parola.

La problematica è da diverso tempo al centro di una disputa fra l’UE – in quanto rappresentata dalla Commissione – e l’Italia. Ciò non ha soltanto implicazioni semplicemente economico-finanziarie, ma anche geostrategiche, per un Paese che vanta 54 porti di rilievo nazionale e tanti altri scali di importanza cruciale per gli scambi in particolare con l’Asia e l’Africa.

La richiesta al Tribunale dell’Unione Europea è quella di annullare la deliberazione della Commissione e di condannarla quindi anche al pagamento delle spese. I ricorrenti ricordano come la legge europea sconfessi l’impostazione della Commissione, dal momento che la distinzione fra attività economiche e non economiche può derivare da scelte di ordine politico degli Stati membri. Se i porti olandesi svolgono funzioni di tipo economico, non è detto lo debbano fare anche quelli italiani. Così la Commissione si spinge fino a violare norme di diritto primario, nonché principi giuridici essenziali al centro di trattati e sentenze, mettendo in discussione le modalità con cui la Repubblica italiana decide di attuare una propria competenza esclusiva: quella in materia tributaria. Fra i vari principi di diritto dell’Unione violati, vi è quello per cui non si può trattare in modo uguale situazioni radicalmente diverse.

Un esempio fra i tanti possibili è poi quello dei porti minori gestiti da Regioni e Comuni anziché dallo Stato; essi non esercitano funzioni di tipo eminentemente economico, quindi l’UE non può pretendere di applicare norme uguali a casi così diversi, ignorando le particolarità storico-geografiche di ciascun caso.

Vengono peraltro violati due ovvi principi generali del diritto tributario: il primo è che non si possono pagare tasse su altre tasse. Infatti, per le leggi del nostro Paese non parliamo qui di una rimunerazione di servizi, ma di una riscossione di imposte versate dal concessionario allo Stato e riscosse dalle Autorità portuali. Perciò non è possibile pagare tasse su altre tasse.

Per quanto riguarda il secondo principio generale violato, a parere dei legali estensori del ricorso, gli uffici della Vestager non hanno dato conto di un aspetto fondamentale: il regime demaniale dei beni portuali, che dunque possono appartenere unicamente a Stato e Regioni. Da ciò deriva che le Autorità di Sistema Portuale (AdSP), in qualità di enti statali, non possono né versare tasse né fallire. I loro debiti sono debito pubblico dello Stato di cui fanno parte.

L’impressione è che a Bruxelles non si abbia idea di come siano organizzati i nostri porti né dei contesti altamente competitivi in cui operano, vale a dire con concorrenti di aree extra UE poco regolamentati. Sul versante shipping, le compagnie armatoriali del pianeta, che prima erano una ventina, sono rimaste ora rappresentate da tre colossi, mentre i cinesi sono ormai gli operatori più combattivi nel panorama della logistica marittima. L’UE poi sembra trascurare gravemente i piani in atto nei porti concorrenti africani, che non rispondono ad alcun organo di vigilanza. In questa congiuntura l’Italia, con i suoi porti, si trova in una morsa. Eppure l’economia portuale vale il 3-4% del PIL del Paese, che sale al 10% se si comprende anche il mondo della logistica in generale.

A ciò si aggiunga che il Paese ha bisogno di mettersi sempre più in sicurezza anche grazie a maggiori infrastrutture, oltre che per creare lavoro e ricchezza. Ciò tanto più nella situazione di instabilità globale connessa alle crisi epidemiche e a successive varianti che si profilano negli anni a venire.

Uno dei rischi è che, omologando la portualità dell’Italia a quella del Nord Europa, si possano offrire vantaggi enormi a privati e ad autorità pubbliche di Paesi esteri, che potranno liberamente venire a gestire nostre infrastrutture di incalcolabile importanza strategica. Le richieste da parte del comparto portuale vanno invece in tutt’altre direzioni. Per esempio, alla recente tavola rotonda su questi e altri temi organizzata a Ravenna da Assoporti e dalle AdSP locali, i vertici di queste ultime hanno richiesto di essere più efficienti e con meno lacci burocratici. In ogni caso hanno lasciato intendere di non essere propensi alle privatizzazioni, mentre la questione principale è come dare risposte a chi vuole investire.

Tuttavia all’UE sembra interessino solo i versamenti delle imposte. Le insistenze a senso unico da parte dell’UE hanno destato inevitabilmente sospetti negli addetti ai lavori italiani. C’è chi parla di trame e macchinazioni che sarebbero partite da Stati membri del Nord Europa. In realtà è quantomeno verosimile che dietro le decisioni sconsiderate dell’UE possano esservi, come rilevano molti analisti italiani, pressioni da parte dei Paesi del Nord Europa, volte a ottenere favori e posizioni di vantaggio nel settore. In considerazione di ciò, forse sarebbe consigliabile, da parte delle istituzioni italiane, fare una più intensa attività lobbistica e di rappresentanza a Bruxelles tramite parlamentari, ma anche e soprattutto coinvolgendo ambasciate e consolati.

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